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CRAVUNàRI IN SILA

di Saverio Basile

Se andiamo a spulciare i registri dello Stato Civile del Comune di San Giovanni in Fiore ci acciorgiamo subito che agli inizi del secolo scorso, la comunità più numerosa di “forestieri” era quella proveniente da Serra San Bruno. Venivano nel nostro paese in cerca di lavoro nel settore della forestazione: boscaioli, mannesi, segantini e pure carvunàri. Questi ultimi perché nel loro paese cominciava a scarseggiare la legna di leccio e faggio, da cui si ottiene un tipo di carbone “pregiato”, molto richiesto per accendere il braciere; riscaldare il prete: ovvero un cilindro di latta nel quale mettere i carboni accesi che una volta chiuso ermeticamente serviva a riscaldare il letto prima di andare a dormire e così anche per alimentare il ferro da stiro e la fornace di casa, che era insieme caminetto e posto dove mettere a bollire i fagioli nella pignatta di creta in modo da cuocerli a fuoco lento. Il posto più ideale per impiantare il cantiere dei carvunàri era la località Colle dei Fiori, una montagna da cui si domina il paese, sicché i familiari si accorgevano, dal tipo di fumo che fuoriusciva dal cratere della carbonaia, a che punto stavano i lavori e prevedere anche la data di rientro dei rispettivi congiunti. Il cantiere era costituito da uno spazio semiovale abbastanza largo, solcato da un ruscello necessario al fabbisogno e circondato da boschi di faggi e lecci dai quali i carvunàri tagliavano la legna in pezzi non più lunghi di un metro. Quindi fatta questa operazione cominciavano a costruire a strati la carbonaia a forma circolare e alta sino a cinque metri, all’interno della quale infilavano paglia e frasche che facevano passare dalla bocca a forma di imbuto al rovescio e nella quale poi, a carica ultimata, davano fuoco calandovi nella struttura legnosa un pezzo di resina accesa. Intanto, altri carvunàri si occupavano di stendere sulla catasta di legna terriccio e foglie umide, che modellavano con la pala sulla parete esterna della carbonaia facendo attenzione a non occludere i fori di “respiro” attraverso i quali inizialmente entrava l’ossigeno che alimentava le fiamme e successivamente fuoriusciva il fumo, quando nel ventre della carbonaia, ormai a fuoco lento, ardeva la legna. Vederla in azione da lontano sembrava un piccolo vulcano, specie quando le faville scoppiettavano nel cielo, alternate al fumo. A capire l’avvenuta “cottura” della legna divenuta ormai carbone era il colore del fumo: prima nero denso, poi dopo la prima settimana man mano diventava quasi grigio fino a quando fuoriusciva fumo di colore bianco, era la dimostrazione che il carbone era “cotto” e quindi pronto per essere acceso altrove. Mediamente ci volevano due settimane per ottenere il carbone da andare a vendere a sacchi caricati a dorso di mulo per le strade del paese al grido “’u carvùne!”. ‘U carvunàru per sua definizione aveva il viso quasi sempre nero e così le mani e le braccia. Tanto che le donne anziane del nostro paese sostenevano che questi lavoratori il giorno in cui andavano all’altro mondo, finivano direttamente in Paradiso, perché sulla Terra – sostenevano – avevano già espiato le eventuali pene della vita al contatto con il fuoco sempre acceso.  Quello del carvunàro, infatti, era un mestiere molto duro e sacrificato perché la carbonaia una volta allestita non poteva rimanere sguarnita di manodopera: andava civata e guardata di continuo. I migliori clienti dei carvunàri erano gli uffici pubblici: municipio, caserme, scuole che adoperavano il carbone per accendere il braciere e poi ancora sarti, fabbri e massaie. Questo fino ai primi anni Cinquanta, quando cominciarono ad arrivare le prime bombole di gas, e l’elettricità cominciava ad alimentava i fornelli delle stufe elettriche, mandando in pensione definitivamente una categoria di lavoratori che per secoli avevano contribuito a riscaldarci durante le rigide giornate invernali. Diversi carvunàri sambrunisi trovarono moglie dalle nostre parti e molti vi si stabilirono definitivamente nel nostro paese.