IL COSTUME DELLE NOSTRE NONNE


di Mariolina Bitonti

Le tradizioni costituiscono il vincolo che lega San Giovanni in Fiore alla sua gente. Un centro che non vuole perdere nella modernità le proprie radici di incommensurabile ricchezza. Il costume tradizionale sangiovannese costituisce un elemento peculiare di tale ricchezza: austero ed essenziale come la “montagna” a cui appartiene ed ai valori di cui rappresenta una forte valenza di identità. Un costume semplice, quello femminile, come l’universo della donna sangiovannese, matriarcale nelle sue origini brettie. Due sono i colori predominanti: il bianco del lino tessuto in casa e il nero dei broccati, semplici o ricchi per i momenti di festa. L’abito scandisce la vita della donna: dall’adolescenza, al matrimonio, alla morte. E’ chiamato genericamente “ritùartu”, dal “copricapo” di lino che copre la testa dall’elaborata pettinatura: due ciocche intrecciate e annodate davanti e due ciocche intrecciate poste sulla nuca e raccolte ad anelli. Il “ritùartu” è un pezzo di stoffa di lino largo circa trenta centimetri e lungo centoventi centimetri, esso viene raccolto formando una serie di pieghe che, abilmente sistemate, aderiscono alla parte superiore della testa; questo scende lungo le spalle fino alle scapole. Nel periodo di lutto della donna, il ritùartu bianco viene ricoperto a sua volta da un velo nero, mentre venivano tolti tutti gli ornamenti, in particolar modo quelli in oro, e venivano sostituiti con altri più semplici di colore nero. Le “pacchiane”, le donne che indossano il costume sangiovannese, sono ormai realmente poche; in genere l’abito veniva indossato verso i 18 anni, quando la ragazza era ritenuta dalla famiglia pronta al matrimonio. La madre donava alcuni gioielli, mentre quelli più importanti venivano donati dal futuro marito. Un altro elemento, infatti, del costume tradizionale è la ricca oreficeria che produceva monili aggraziati e preziosi che ornavano l’abito e ne testimoniavano l’agiatezza sociale. L’abito della “pacchiana” è formato principalmente da una ricca gonna a pieghe sottili, e un corpetto di velluto arabescato a maniche corte e larghe. E’ quasi sempre nero, e viene completato da una camicia bianca, con elaborati ricami fermati, solitamente, da una preziosa “spilla”. Sulla camicia ricamata e sotto il corpetto si indossa la “cammisola” in velluto, chiusa con piccoli bottoni, che può essere colorata, sempre però in colori opachi; all’interno ha delle piccole tasche utilizzate come portamonete o per custodire immaginette sacre o medagliette; diverse sono le “sottane” indossate, in flanella in inverno, in cotone in estate, per tenere più ampia la gonna e su di essa viene posto un grembiule in seta, formato da numerose pieghe e impreziosito da ricami. A completamento del costume, come detto prima, sono gli ori. L’oreficeria è, infatti, un elemento essenziale nella cultura del luogo poiché attraverso gli ornamenti si stabilisce lo stato sociale della donna. Orecchini, collane, spille, perle “scaramazze”, anelli, spilloni sono realizzati in prevalenza in filigrana ed evocano e riproducono i monili di età greca e bizantina come la “jennacca”, formata da piccole sfere di filigrana, finemente lavorate che conservano ancora la sapienza di un artigianato orafo estremamente importante e ricco. I gioielli rappresentano anche il mondo immaginario della comunità: molti orecchini e ciondoli ripropongono il grappolo d’uva, simbolo di abbondanza e di buon auspicio per la sposa; il corallo rosso, la corniola vengono cesellati e formano orecchini e anelli dai motivi simbolici. Norman Douglas, in “Vecchia Calabria”, definisce le donne sangiovannesi “aggraziate” nel loro costume che tende a sottolineare l’eleganza delle semplici forme.

Comments are closed.