I DOLCI DEL NATALE SANGIOVANNESE

Rappresentano una tradizione che dura da secoli

di Saverio Basile

In tutti i forni del nostro paese, ci sono prenotazioni che partono da metà novembre e fino a tutto dicembre, per cuocere con dovizia le pitte ‘mpigliate, il tradizionale dolce natalizio dei sangiovannesi che non è similare a nessun altro, per qualità, per stesura della pittella, per contenuto e per “l’amore”, che le nostre donne mettono nel preparare questo dolce, secondo una ricetta atavica “segretissima”, tramandata da madre in figlia per generazioni. Pensate che la ricetta della famiglia Tizio non è uguale a quella della famiglia Caio o Sembronio. Varia, magari perché c’è stato messo un po’ di zucchero in più o in meno o perché si sentono gli odori dei liquori, del garofano e della cannella, che devono essere mesciati, invece, con oculatezza, così come facevano prima le nostre nonne e poi successivamente le nostre mamme. E le noci, se non sono di quelle del velo bianco, frutto di alberi a dierru, si sente un pizzico di bruciore alla gola che potrebbe alterarne il sapore. Per non rischiare, meglio quelle di Simigali, ma attenzione che siano frutto di un albero che vegeta a dierru e non a mancu. L’olio è bene assaggiarne il sapore sul dito, non deve pizzicare; poi l’uva passa deve essere bene asciutta e le bucce di mandarino, essiccate e non bruciate dal fuoco, in modo che mantengano il colore naturale. E vi raccomando la “pittella deve essere di finezza giusta…” (pretendeva il nobile Giaquinta che acconsentiva di dare in sposa la propria figlia Angelica al possidente Battista Caligiuro (Rogito del notaro G.B. Marescalco di San Giovanni in Fiore, 1728). Infine, il colore della cottura: deve essere similare al giallo delle api. Poi, per favore, non chiamatele “pitte ‘nchjuse” o tantomeno focacce, perché diversamente la buonanima di vostra nonna si rivolterebbe nella tomba. Finita la preparazione delle pitte ‘mpigliate, si passa sotto Natale a preparare i turdilli, un lavoro meno impegnativo, ma altrettanto importante, perché con l’arrivo di Gesù Bambino è bene predisporre la bocca dolce. E quale dolce più del turdillu può rispondere all’abbisogna? L’impasto è semplice: farina, un composto liquido comprendente vermouth-olio e acqua, lievito, sale e zucchero q.b. e poi forza di gomito ad impastare e minare i pani riducendoli a forma di cordone grosso più di un dito. Quindi tagliati a pezzettini e buttati nell’olio caldo e una volta assunto il colore dell’oro scolati e atturrati con miele, possibilmente millefiori o tuttalpiù quello di castagno, che però gli dà un colore più scuro. In prossimità della vigilia ci si dedica ai fritti, i dolci dei poveri: farina, lievito madre e sale, ma altrettanto saporiti da far leccare le dita. Sui fritti, ancora bagnati dall’olio caldo, lo zucchero va sparso a piene mani. E così il Natale si attende in tutta serenità, perché se non c’è quella, addio dolci natalizi. Infatti, per le famiglie in lutto provvedono i parenti o le amiche del vicinato. A tutti buon Natale e ricordatevi la pitta ‘mpigliata l’ha inventata certamente una vostra antenata e poi dai monti della Sila si è messa in viaggio per il mondo. Uno dolce, dunque, che è una nostra “eccellenza” di cui andare orgogliosi!

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