STORIE TRISTI DELL’EMIGRAZIONE: LA MORTE SUL LAVORO DI NIKOLIA ZOJZA

di MARIA CONCETTA LORIA

Ci sono storie piene di speranza, iniziano con un biglietto di viaggio e una valigia piena di sogni da realizzare. A volte le valige neanche ci sono, basta solo quel bagaglio fatto di un corpo che cerca solo un posto migliore in cui vivere, un futuro che qualcuno sembra voler negare a tutti i costi. Si tratta di storie che si ripetono, in quei viaggi della speranza che, a volte, si infrangono davanti alla dura “selezione” sull’isolotto artificiale di Ellis Island, così che da punto di approdo si trasforma in punto di ritorno. Fiducia che naufraga davanti le coste del Mediterraneo, trasformato in luogo di eterna sepoltura di identità private anche di un nome. Kr149f9, una combinazione di sillabe e numeri per indicare che la quattordicesima vittima del naufragio di Cutro, dello scorso mese di febbraio, è una femmina dell’età di circa nove anni. I quotidiani riportano che il mare l’ha restituita con una sola scarpa, un taglietto al piede, la bocca piena di sabbia, particolari macabri che servono a restituire un po’ di umanità a un freddo codice alfanumerico. Qualcuno muore di freddo e di fame in un bosco dell’Europa orientale, e muore tra le braccia dei suoi genitori che, con tutto il loro amore, non sono riusciti a salvare il proprio bambino venuto al mondo da poco più di un mese. Che sia il 1800, il 1900 o gli anni 2000, le storie sono sempre quelle di uomini, di donne e di bambini a cui la vita nega il diritto naturale della dignità dell’esistenza. Poi ci sono storie che ci toccano più da vicino, perché di queste persone conosciamo il nome e il cognome, persone con le quali condividiamo lo spazio sociale della stessa comunità e che meritano di essere raccontate perché hanno un volto, ci fanno comprendere meglio il dramma dell’emigrazione, la stessa vissuta dai tanti sangiovannesi costretti a una vita raminga che di certo non era quella che avevano auspicato di vivere. Questa è la storia di Nikolia, possiamo raccontarla così come si iniziano a raccontare le favole e, come tutte le fiabe, ci mette davanti ai grandi problemi della vita, spingendoci in quel meccanismo d’identificazione che ci rende partecipi di drammi che non sono più individuali, ma collettivi.  C’era una volta un taglialegna, è questa la frase con la quale iniziavano tante fiabe che ci raccontavano da bambini, i taglialegna esistono ancora, ma oggi difficilmente ricoprono il ruolo di protagonisti delle fiabe moderne. Oggi le fiabe parlano d’altro, raccontano di supereroi che vivono in realtà parallele, universi virtuali hanno poteri straordinari e sono capaci di salvare il mondo e se stessi. Il nostro taglialegna, si chiamava Nikolia Zojza, abitava in un paese di montagna lontano dal suo paese natio, per inseguire il sogno di una vita migliore aveva attraversato il Mar Mediterraneo, e dal sud occidentale della penisola Balcanica si era trasferito sulle alture di un altipiano silano. Il suo nome, Nikolia, portava un significato: colui che vince per il suo popolo, vincitore, ma il destino aveva altri progetti. C’era una volta un giovane taglialegna, aveva 33 anni, gli stessi anni di quel Cristo sacrificato per salvare il mondo dai suoi peccati. C’era una volta un taglialegna che non è riuscito a salvare sé stesso, anche lui è morto a 33 anni su una croce di legno, che senza pietà lo ha schiacciato allo stesso modo in cui i peccati del mondo hanno schiacciato Cristo. Nikolia era un ottimista, un sognatore, voleva costruire la sua vita in Calabria, in quella stessa regione da dove gli stessi calabresi scappano per cercare altre terre, luoghi in cui i diritti essenziali siano rispettati, città in cui curarsi è un diritto per tutti i cittadini nella stessa misura, realtà in cui per poter lavorare non serve la raccomandazione del Picone di turno, perché bastano le proprie competenze e i titoli conseguiti. Nikolia, forse, amava questa terra più di quanto non sia amata dai calabresi stessi, perché lui è qui che aveva scelto di vivere, voleva costruire laddove gli stessi calabresi hanno abbandonato le proprie case.   Nikolia Zojza, in una fredda giornata di aprile, in una primavera che non riesce a sbocciare, soffocata ancora dal grigiore dell’inverno e stretta in una morsa di freddo che solo gli inverni silani conoscono, è diventato un numero che andrà ad incrementare quella cifra di morti sul lavoro per l’anno 2023. Nikolia era un ragazzo, uno come tanti, come i nostri calabresi emigrati all’estero per necessità e non per scelta.  La cronaca del 12 aprile ha diffuso la notizia parlando di un incidente sul lavoro, in cui un operaio aveva perso la vita. Un operaio di nazionalità albanese, residente a San Giovanni in Fiore. Come se facesse qualche differenza il fatto che non fosse italiano o calabrese. Succede ogni volta che si racconta una tragedia, la nazionalità diventa quel fattore che identifica lo straniero, come se questo potesse far tirare un sospiro di sollievo a tutti i connazionali, ai concittadini, ai compaesani. Il dispiacere che trova conforto in un pensiero: non era italiano, non era calabrese, non era sangiovannese. Nikolia era albanese, come se potesse avere una qualche importanza. Come se il valore dell’umanità si potesse misurare sulla nazionalità riportata sul documento di riconoscimento. Come se i sentimenti fossero prerogativa dei paesi occidentali, ancora di più se industrializzati. Come se il valore delle vite umane fosse direttamente proporzionale al prodotto interno lordo di un paese. Nikolia era diventato un figlio di questo angolo di mondo e, per essere figli, non serve la cittadinanza e men che meno il diritto di voto. Per essere figli serve solo essere amati da una famiglia che ti accoglie e questa famiglia, quella della popolazione sangiovannese, piange per una giovane vita spezzata, e si stringe anche con la preghiera, oltre ogni credo religioso, al resto dei suoi cari che continueranno a vivere sul nostro altipiano. A noi non resta che augurare a tutti loro, oggi affranti da un dolore indicibile, di continuare a sperare e a credere che l’Italia possa ancora essere, nonostante tutto, un posto migliore in cui restare. Nikolia era un figlio di questa umanità che troppe volte divide le persone in noi e gli altri e gli altri sono sempre gli stranieri poveri di cui diffidare, lo siamo stati anche noi, e neanche in un tempo lontano. Siamo stati negri bianchi, cani selvatici, virus, mafiosi, criminali, ignoranti, cafoni, mangiaspaghetti, zingari e tante altre infamie ancora. Nikolia era un ragazzo, morto lontano dalla sua casa, dalle strade nelle quali giocava da bambino, dagli odori e dai colori della sua terra.  Nikolia era un lavoratore emigrato in un paese nel quale ha trovato la morte, proprio come quei giovani sangiovannesi minatori morti a Monongah nel 1907, proprio come i nostri ragazzi morti sotto una montagna di ghiaccio nel 1965 a Mattmark, come loro sarà ricordato per lunghi anni nella sua terra e anche in questo paese che conosce il dolore e il sacrificio di chi è partito e di quanti non sono più tornati. Onorare la memoria di questo giovane, venuto a morire in terra straniera, sarà come continuare a mantenere vivo il ricordo dei figli di questa terra che non sono mai diventati vecchi, sarà come commemorare quelle vite umane sacrificate, come soldati, sull’altare del profitto. C’era una volta un giovane taglialegna e, nonostante questa non sia una fiaba a lieto fine, Nikolia, continuerà a vivere nel presente di tutte le persone che ogni giorno lo ricorderanno.

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